venerdì 8 marzo 2013

Amore & Odio: le due grandi forze cosmiche generatrici.





Empedocle di Agrigento, il filosofo greco che tentò una audace sintesi del divenire di Eraclito e dell'essere di Parmenide, riteneva che vi fossero quattro «radici» di tutte le cose: terra, acqua, aria e fuoco, le quali  sono animate da due forze opposte: Amore e Odio (o Contesa); la prima che tende a unirle, la seconda che tende a separarle.
Senza queste due forze cosmiche di natura divina, il mondo non esisterebbe. In origine non esiste altro che uno Sfero,  nel quale gli elementi, tenuti insieme dall'Amore, sono così strettamente congiunti, che tutto è ridotto a unità indifferenziata. Non vi sono né la terra, né il mare, né la luce, né il buio; Amore è una forza divina che gode di sé stessa e della propria, totale autosufficienza.
Poi inizia a farsi sentire l'azione della Contesa, e la perfetta unità incomincia a incrinarsi: nascono le cose; nasce il mondo, quale noi lo conosciamo: è il raggiungimento dell'equilibrio tra l'Amore e l'Odio. Ma in seguito, mano a mano che il secondo prende sempre più il sopravvento, il mondo stesso si disgrega inarrestabilmente e ogni cosa precipita nel caos e nella distruzione.
In seguito, Amore tornerà a manifestarsi e formerà nuovamente lo Sfero, raccogliendo gli elementi sparsi nell'universo; il ciclo ricomincerà, e il nostro mondo riapparirà una seconda volta, quindi una terza, e così via, all'infinito.
Aristotele, più tardi, avrebbe criticato il sistema di Empedocle, affermando che, in esso, sia l'Amore che l'Odio creano e poi distruggono il mondo, ciascuno per forza propria: il che gli sembra indice di incoerenza speculativa. In realtà, la critica di Aristotele sarebbe fondata, se Empedocle identificasse l'Amore con il Bene e l'Odio con il Male; mentre non è affatto così.
Per il filosofo di Agrigento, sia l'Amore che l'Odio - come abbiamo visto - sono forze divine, ed entrambe sono necessarie alla formazione del mondo, così come alla sua ciclica dissoluzione (si noti che qui è presente la dottrina dell'eterno ritorno dell'uguale, che sarebbe poi stata ripresa da Nietzsche nello «Zarathustra»).
Per Empedocle, l'Amore non è affatto il principio creatore dell'universo, né potrebbe essere concepito in maniera autonoma e autosufficiente. Al contrario, e come per Eraclito, il mondo del manifestato è in perenne trasformazione, e sia l'Odio che l'Amore sono forze originarie, rappresentando il principio dell'essere. Non è che l'Amore diventi Odio e viceversa; essi restano distinti; però la loro azione si esplica in una perenne modificazione e in un perenne rovesciamento della struttura fisica del mondo.
Se l'Amore e l'Odio di Empedocle corrispondessero ai concetti etici del Bene e del Male, allora il suo sistema sarebbe una filosofia dualista; invece non lo è, perché Amore e Odio non sono realtà morali, ma fisiche. L'essenza del pensiero di Empedocle è parmenidea: l'essere è eterno e indistruttibile, non può nascere né morire; ma accoglie la teoria del divenire di Eraclito, perché ritiene che la continua trasformazione delle cose non riguardi se non lo sfera dell'apparire.
L'essere, dunque, non è soggetto ad alcuna trasformazione o modificazione; resta però il problema di spiegare perché a noi sembra che le cose si trasformino, nascano e periscano. Ciò avviene non in vista di una loro destinazione; infatti, la spiegazione della nascita e della morte apparente delle cose risiede nell'azione delle due forze cosmiche suddette.
Tutto si trasforma nel regno della natura, anche l'uomo (Empedocle ammette il principio della metempsicosi); non per un principio finalistico, ma per un'esigenza morale, ossia perché gli esseri umani possano mondarsi dei propri peccati.
È notevole, infine, il fatto che Empedocle non operi alcuna distinzione tra la conoscenza sensibile e quella intellettuale (cosa che presenta una curiosa affinità con la gnoseologia di Locke), precisando che il simile si conosce solo mediante il suo simile: ad esempio, la terra con la terra, l'acqua con l'acqua, e così via; anche l'amore si può conoscere solo per mezzo dell'amore, e l'odio soltanto per mezzo dell'odio.

Una versione aggiornata della concezione di Empedocle sulle due grandi forze cosmiche dell'Amore e dell'Odio è riconoscibile nel pensiero dell'etologo tedesco Irenäus Eibl-Eibensfeldt, intese però - come per Aristotele - in senso morale.
Konrad Lorenz, in libri come «Il cosiddetto male» (1963), ci aveva già abituati all'idea che l'istinto alla violenza inter e infraspecifica non deve essere considerato negativamente nella sua essenza, perché - anzi - esso è utile e necessario alla sopravvivenza; ma solo nella misura in cui finisce per esorbitare dalla sua funzione originaria di sopravvivenza nella lotta per la vita, ma diviene patologico e insensato.
Tuttavia, e qui sta l'originalità di Eibl-Eibensfeldt, quest'ultimo è convinto che le potenzialità del bene (si badi, le potenzialità e non il bene in sé stesso) siano biologicamente presenti nell'essere umano in misura almeno paragonabile a quelle violente e tendenzialmente autodistruttive. Un punto di vista che, pur muovendo da un'ottica prettamente materialista ed evoluzionista (con la quale noi non concordiamo), giunge a conclusioni che sono, invece, largamente condivisibili: che la società umana, nonostante i molti segnali allarmanti, non è votata al destino dell'autodistruzione dalla sua stessa natura.
Generalmente, noi siamo portati a ritenere che l'aggressività sia un istinto, dunque che essa sia natura; mentre la capacità di mediare e limitare i conflitti e ricercare le vie della socializzazione e della collaborazione sarebbe prevalentemente acquisita, ossia che essa sia cultura. Ora, nel conflitto tra natura e cultura, è logico pensare che finirà per vincere la prima: perché essa è costitutiva ed essenziale, la seconda è posteriore ed accessoria.
Questa visione fortemente pessimistica, in effetti, compare sulla scena del pensiero europeo alle soglie della modernità, con il filosofo inglese Thomas Hobbes, il quale ritiene che l'uomo sia naturalmente feroce nei confronti dei propri simili: «Homo homini lupus»; e che l'unico rimedio a questo suo stato di selvaggia ferinità, potenzialmente autodistruttiva, consista nel mettere la società sotto il controllo di una forza potente, temibile e impersonale - lo Stato - capace di incutere paura e di imporre il rispetto della pacifica convivenza sociale.
Da Hobbes in poi, la visione di un perenne «bellum omnium contra omnes», di una eterna lotta di tutti contro tutti, sulla base degli istinti scatenati, è entrata a far parte del nostro immaginario collettivo e si è depositata talmente in profondità nella nostra cultura, da assurgere al rango di verità assoluta, di dogma evidente di per sé stesso.
Si noti che si tratta di una concezione che presenta una somiglianza solo apparente con il cosiddetto pessimismo cristiano: perché, mentre essa parte dall'assunto che l'uomo è intrinsecamente violento e distruttivo e che il male fa parte della sua struttura ontologica, il cristianesimo ammette, sì, la ferita originaria del Peccato originale, ossia il marchio di una imperfezione cui tutti gli uomini soggiacciono dopo la Caduta; ma sostiene anche che, mediante il mistero dell'Incarnazione e quello della Grazia, essi hanno la possibilità di riscattarsi da tale imperfezione e di ricostituire, mediante l'alleanza con Dio, il progetto originario della creazione, che, in sé stesso, è interamente benefico e amorevole.
Ad ogni modo, e specialmente da quando Darwin, Nietzsche e Freud hanno annunciato i loro rispettivi Vangeli, basati sulla comune idea della «morte di Dio», la visione hobbesiana, disarmonica e violenta della natura umana, è entrata definitivamente nel bagaglio culturale e spirituale dell'uomo moderno, producendo da un lato brucianti sensi di colpa e, dall'altro, spingendo le coscienze verso il relativismo assoluto, l'edonismo radicale e il nichilismo.
E tuttavia, se le cose non stessero così?
Se la visione di una natura tutta volta all'aggressività e alla violenza fosse un mito, una forma di evoluzionismo stravolto e aberrante; mentre la collaborazione e il mutuo appoggio sono, anch'essi, istinti, e, come tali, fattori assolutamente naturali, dunque primari ed essenziali?
Filosofi come Guyau e scienziati come Kropotkin ne erano profondamente convinti. Eibl-Eibensfeldt, dal suo particolare punto di vista di zoologo ed etologo, porta argomenti - frutto principalmente di osservazione diretta del comportamento, tanto negli animali che nell'uomo - ad ulteriore sostegno di questa tesi, sfatando l'immagine di una natura tutta zanne ed artigli insanguinati e, insieme ad essa, revocando in dubbio l'idea di una implosione inevitabile della civiltà umana.
Egli porta avanti questa tesi particolarmente nel suo libro «Amore e odio. Per una storia naturale dei comportamenti elementari» (titolo originale: «Liebe und Hass. Zur Naturgeschichte elementarer Verhaltensweisen», Monaco, 1970; traduzione italiana di Gastone Pettenati, Milano, Adelphi Edizioni, 1971, pp. 15-16 e 288-89):

«Nella storia dell'umanità si susseguono, quasi senza soluzione di continuità, capitoli sanguinari; né, fino a oggi, è cambiato qualcosa: solo che, forniti di armi atomiche, in caso di complicazioni belliche corriamo il pericolo di annientarci. Abbiamo imbrigliato le forme della natura, vinto le epidemie, sterminato gli animali feroci che un tempo ci minacciavano:  oggi i nostri peggiori nemici siamo noi stessi - a meno che non ci riesca di addomesticare le nostre pulsioni aggressive.
Ma, ve n'è la sia pur minima prospettiva?  Non saremo forse dominati da un istinto d'aggressione congenito, da una libido di assassinio che, nel caso migliore, possiamo reprimere, mai eliminare? Recentemente, proprio questo è stato ripetutamente affermato.
"Caino domina il mondo: a chi ne dubita consigliamo di rileggersi la storia" scrive Leopold Szondi nel 1969. Egli rappresenta la teoria secondo la quale  a tutti gli uomini è propria la disposizione  all'assassinio, e parla di una diatesi di Caino, fattore istintuale innato; similmente scrive Robert Ardrey.
La stampa quotidiana e periodica riprende queste tesi.Così nel numero del 17 gennaio 1969, nella rivista "Time" leggiamo che l'uomo è l'animale più aggressivo della Terra, perché gioisce, fondamentalmente, nel torturare e uccidere gli altri animali, compresi i congeneri.. Addirittura, ogni figlio assassinerebbe volentieri suo padre se questo istinto naturale non venisse astutamente represso: un giorno, infatti, quel figlio si troverà nella stessa situazione del padre.
La tesi afferma dunque che l'uomo è predisposto per sua natura all'assassinio, benché ragione e capacità di previsione reprimano tale impulso: si potrebbe parlare di un concetto del bruto addomesticato.  Da tale angolazione, nell'uomo, il bene è prodotto di cultura, il male risultato di pulsioni oscure contro cui egli nulla può. (…)
Io credo che noi abbiamo buoni motivi d'ottimismo perché siamo esseri sociali per predisposizione innata e possiamo orientarci, nel cercar norme e loro correttivi, anche sui nostri adattamenti filogenetici, Noi non dobbiamo derivare ogni norma etica per via culturale; alcune  di esse sono ancorate alla nostra costituzione, e questo ci dà una certa sicurezza.

Bene o male? L'inclinazione all'intolleranza e all'aggressione ci è certamente innata, ma noi  non portiamo in fronte nessun marchio di Caino:  la tesi dell'essenza assassina dell'uomo non può essere seriamente sostenuta; piuttosto, la ricerca dà per risultato  che noi siamo anche, per natura, degli esseri buoni.
Con questo fondamentale ottimismo, non voglio per nulla minimizzare la nostra aggressività: parlo di una potenzialità di bontà, che non è affatto attualizzata in ogni caso. L'educazione senza amore e l'aizzamento sistematico creano uomini sentimentalmente poveri e scuotono la loro inclinazione innata all'amore del prossimo. Se smetteremo di erigere barriere  sulla comunicazione fra uomini e di degradare a mostri coloro che sono uomini come noi, anche se aderiscono ad altri sistemi di valori - ma, al contrario, accentueremo ciò che a loro ci lega, noi prepareremo per i nostri nipoti un futuro felice.  La vita è scaturita da questo petrigno pianeta in sempre nuove forme: dalle alghe più semplici su su fino all'uomo, il quale medita su questa creazione e cerca di plasmarla egli stesso e, ciò facendo, forse finisce per distruggerla. Sarebbe veramente grottesco risolvere in quest'ultimo modo il problema del significato della vita.»

A questo punto, ci sembra necessario distinguere due differenti piani di riflessione.
Sul primo piano si collocano le rispettive conseguenze delle due opposte concezioni della natura dell'uomo e del suo probabile destino. La visione di Hobbes, che si risolve in un radicale pessimismo antropologico, porta necessariamente o  ad auspicare un potere politico-sociale di tipo totalitario, l'unico in grado di salvare l'uomo dalle sue stesse pulsioni autodistruttive; oppure a bandire un'etica del «tutto è permesso», una forma di edonismo estremo, in vista del probabile e non lontano annientamento dell'umanità.
Sul piano filosofico, però, la prima soluzione appare debole, perché, se la natura dell'uomo è cattiva, non si vede da quale parte dovrebbe originarsi il potere statale forte, ma essenzialmente «buono», capace di salvarci a dispetto di noi stessi; mentre la seconda prospetta una forma di eutanasia di massa che, di fatto, coinciderebbe con il massimo del disordine sociale, rendendo ancora più drammatico e sanguinoso il declino della civiltà.
Da ciò deriva che i profeti della inevitabile autodistruzione delle società umane non sono in grado di portare alcun elemento di riflessione positiva: sono degli «apocalittici senza Dio», ovvero degli apocalittici che non predicano la conversione, ma che annunciano la fine e basta; parafrasando la terminologia semiologica di Eco, sono dei nichilisti fiammeggianti, il cui scopo non è quello di indicare possibili vie d'uscita, ma di predicare la distruzione e la morte della speranza, in qualunque forma la si voglia immaginare.
Il secondo piano di riflessione ci porta a una ridefinizione dei rispettivi ambiti di ciò che, tradizionalmente, siamo soliti designare come «natura» e «cultura». In effetti, la rigida distinzione tra i due ambiti è relativamente recente: appare, nell'ambito del pensiero occidentale, con Rousseau, il quale contrappone la bontà innata dell'uomo allo stato di natura (mito del «buon selvaggio») alla corruzione e ai vizi che sarebbero l'inevitabile portato della civiltà.
Ma si tratta di un'idea discutibile, una delle tante manifestazioni di quello stravolgimento dell'immagine che l'uomo aveva di se stesso, operata dalla modernità.
Per migliaia di anni, dai Greci in poi, l'uomo ha visto sé stesso sia come un essere naturale, sia come un essere culturale. Nel platonismo e nel cristianesimo, l'uomo possiede un destino trascendente, un'anima originaria che lo sospinge a trascendersi e a cercare il ricongiungimento con la sua patria celeste. Egli è una creatura armoniosa, capace di libero arbitrio, e la sua natura fondamentalmente luminosa non è compromessa in modo irrimediabile dalla sua caduta (caduta nel mondo terreno secondo Platone, caduta in senso morale nel cristianesimo).
Così, a dispetto di quanto dice la Vulgata neopositivista oggi dominante, il Medioevo non è stato affatto un'epoca di radicale pessimismo riguardo alla vita umana: l'uomo era visto come una creatura di luce che, nonostante tutto, avrebbe finito per ricongiungersi con l'Amore infinito del proprio creatore, a meno che avesse liberamente e scientemente deciso di volgergli le spalle. Ma si sarebbe trattato di un rifiuto individuale, non ontologico: in altre parole, si sarebbero perduti solo dei  singoli esseri umani, non l'umanità in quanto tale.
Il vero pessimismo antropologico, come si è detto, fa la sua comparsa con Hobbes; e, da quel momento, si può dire che i filosofi occidentali hanno fatto a gara nel dipingere a fosche tinte la natura dell'uomo, il suo destino e l'insieme dell'universo nel quale egli è collocato.
Il vertice di tale pessimismo è stato toccato da Schopenhauer, che individua l'essenza del mondo come «volontà di vivere» e vede in essa la radice di tutti i mali, e da Eduard von Hartmann., che giunge ad auspicare una sorta di suicidio cosmico, allorché l'universo si renderà conto che, per sopprimere la sofferenza, dovrà uccidere in se stesso l'infausta «volontà di vivere».
Quasi tutto il resto di quanto ha prodotto la filosofia moderna non è altro che una variazione sul tema: dal tramonto di Zarathustra all'esistenzialismo nichilista di Sartre, il ritornello è sempre lo stesso: l'uomo è un essere malvagio e infelice, e quanto prima scomparirà dal mondo, tanto di guadagnato sarà per tutti.
La posizione di Irenäus Eibl-Eibensfeldt è particolarmente originale perché, pur muovendo - come si è detto - da una prospettiva puramente biologistica, riafferma con vigore il principio di speranza, negando che solo l'aggressività («il cosiddetto male» di Lorenz) sia naturale, e affermando che gli impulsi alla socialità e alla collaborazione sono altrettanto naturali.
Nessuno ha pertanto il diritto di profetizzare l'Apocalisse come un destino inevitabile per l'uomo.
Al contrario, è necessario che ogni singolo essere umano maturi una assunzione di responsabilità individuale: ciascuno è responsabile del bene o del male che fa, e anche del bene che omette di compiere, qua do lo potrebbe.
La risultante di tutte queste volontà individuali scriverà la parola decisiva per il nostro futuro, come specie capace di libertà e autodeterminazione.

Ma c'è un'ultima riflessione, che scaturisce come logica conseguenza da quanto abbiamo fin qui detto.
Il male certamente esiste, e tuttavia sembra che anch'esso collabori, in una forma che ci rimane essenzialmente misteriosa, all'evoluzione spirituale dell'uomo e allo stesso equilibrio del mondo; e qui ci rifacciamo - in parte - al pensiero di Empedocle.
Esisterebbe l'amore, se non vi fosse l'odio? E il bene, sarebbe pensabile senza il male?
Ecco, allora, che il male stesso finisce per apparire non solo come un principio antitetico al bene (ciò che sicuramente è; e lo è, a nostro avviso, anche in forma personale, come abbiamo più volte scritto), ma anche come l'involontario e necessario collaboratore del bene. La presenza del male, infatti, da un lato suscita, per reazione, l'insorgenza del bene; dall'altro, offre la possibilità di una sua trasformazione ontologica nel bene medesimo.
Quante volte non si è visto che un male ha suscitato una sorta di rivolta morale, attivando le potenzialità di bene insite nell'uomo?
E quante volte non si è osservato che un male, sotto l'azione potente dell'amore, ha finito per produrre un bene ancora più grande?
In termini cristiani, questo è il concetto di redenzione, che culmina nella morte in croce di Cristo, strumento di riscatto e di rinascita morale per l'intera umanità. Ma ciascuno di noi, se possiede una vista abbastanza esercitata, potrà scorgere la conferma di questo principio in cento e mille episodi di vita quotidiana; così come in molti grandi fatti della storia. Il mistero, di cui parlavamo, è appunto il fatto che il male finisce per diventare strumento di bene, suo malgrado.
Ed è un mistero che ciascuno di noi può incarnare, mediante la scelta morale, divenendo un collaboratore del progetto armonioso da cui ha avuto origine il mondo manifestato, che ne spiega il senso e ne preannuncia l'ultimo destino.


Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]  

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1 commento:

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