La crisi delle scienze fisiche
A inizio Novecento, l’Europa intera è attraversata da quella che si è
soliti definire crisi delle scienze fisiche. Tutta una serie di
esperimenti basati sulla radiazione emessa dagli atomi aveva infatti mostrato
l’insufficienza della vecchia meccanica newtoniana nell’indagine della natura.
Se, da un lato, la teoria einsteiniana era andata a colmare le lacune della fisica
classica per quanto riguardava le grandi masse e le grandi distanze, dall’altro
si continuava a avvertire la necessità di un nuovo modello, in grado di rendere
conto dei comportamenti delle unità costitutive della materia: gli atomi. Paul
Dirac, Wolfgang Pauli e Louis de Broglie - solo per ricordare alcuni nomi tra i
più celebri - si misero al lavoro, nel tentativo di sbriciolare completamente
le acquisizioni tradizionali sulla materia. L’obiettivo era di sostituire a
esse delle teorie fisiche che, a dispetto di un possibile carattere fortemente
controintuitivo, fossero tuttavia in grado di superare le discrepanze osservate
tra previsioni teoriche e risultati sperimentali. Tra di esse, un ruolo di
assoluta centralità spetta al cosiddetto principio di indeterminazione,
teorizzato dal fisico tedesco Werner Heisenberg.
Formulato in un celebre articolo comparso nel 1927 presso la «Zeitschrift
für Physik»[1],
il principio heisenberghiano comporta senza dubbio alcuno «una delle più
sconcertanti rivoluzioni del sapere umano, che darà solide radici al mondo
turbolento della nuova meccanica e le cui implicazioni fisiche e filosofiche
saranno materia di discussione per tutto il Novecento»[2].
Un colloquio con Einstein
Nonostante la sua originalità, bisogna tuttavia riconoscere come la riflessione heisenberghiana nasconda al proprio interno alcuni debiti profondi contratti nei confronti di alcuni «illustri predecessori».
Primo fra tutti, Einstein. Non è certo un mistero il malcelato scetticismo che il padre della relatività sempre mostrò nei confronti della nuova meccanica quantistica. Eppure è Heisenberg stesso a riconoscere l’importanza avuta da Einstein nella formulazione del principio di indeterminazione. Egli racconta infatti di una conversazione che i due ebbero il 28 aprile 1926 a Berlino, subito dopo una conferenza tenuta da Heisenberg al Kolloquium di fisica:
«Una sera mi tornarono improvvisamente alla mente le
parole di Einstein: “È la teoria a decidere cosa possiamo osservare. Il
problema andava formulato in un altro modo: la meccanica quantistica è in grado
di rappresentare il fatto che un elettrone si trova approssimativamente in un
punto dato e che si sposta approssimativamente a una velocità data? E poi:
siamo in grado di calcolare posizione e velocità in modo sufficientemente
approssimato da non andare incontro a difficoltà sperimentali? »[3].
La domanda era chiara. Se Einstein aveva veramente ragione, occorreva necessariamente porsi in maniera problematica di fronte al nuovo modo di descrivere la realtà. Occorreva cioè ricercare quali limiti la teoria quantistica portasse con sé.
Il «punto oscuro» di Pauli
La riflessione heisenberghiana è di molto debitrice anche a una serie di
osservazioni compiute da Pauli sulla collisione tra elettroni, interpretati come
onde materiali. In una lettera indirizzata a Heisenberg[4],
Pauli lo informava delle sue scoperte: quando due elettroni si trovavano
distanti, le variabili p e q - che indicano rispettivamente il
momento e la posizione di ciascun elettrone - si comportavano secondo le
previsioni della fisica classica: gli elettroni, in altre parole, agivano
semplicemente come onde piane. Questo smetteva di essere vero quando i due
elettroni venivano a trovarsi a distanza ridotta, in prossimità di una
collisione o all’interno di un atomo: in questo caso, infatti, a prevalere era
il loro comportamento quantisitico. Pauli non esitava a parlare di «punto
oscuro», intendendo che, qualora si assumesse una delle due variabili come
controllata, occorreva tuttavia rassegnarsi all’idea che l’altra fosse
indeterminabile. Diventava così impossibile fissare in maniera definitiva la
traiettoria della particella indagata, che restava in questo modo
incontrollata. Il che, molto semplicemente, sta a significare che di essa non
si potava sapere nulla.
Le relazioni di indeterminazione
È da questa nozione di «punto oscuro» elaborata da Pauli che occorre
partire per comprendere il principio heisenberghiano di indeterminazione.
Pauli, infatti, riteneva erroneamente che l’«incontrollabilità» si potesse
predicare di una sola delle due variabili. Ma, come Heisenberg intendeva
mostrare, la realtà era ben più complessa: entrambe le variabili lo erano,
reciprocamente. È la natura stessa a porre questo limite conoscitivo: il
problema non sta pertanto nell’impossibilità di misurare una certa grandezza
fisica. Ciò che Heisenberg mostra chiaramente è l’impossibilità di conoscere il
prodotto delle due variabili coniugate.
Nell’articolo del 1927 Heisenberg formulava questo limite in termini
matematici attraverso due celebri relazioni:
1.
Δp Δq ≥ h/2π
2.
ΔE Δt ≥ h/2π
in cui p
e q rappresentano - come già detto - il momento e la posizione di un
elettrone, mentre h sta a indicare la costante di Planck.
La prima relazione, esplicitata, mostra che, qualora misurassimo nel
medesimo istante la posizione e il momento di una particella, con un certo
errore di precisione Δp e Δq, l’imprecisione della
misura simultanea sarebbe tale da rendere il prodotto dei due errori almeno
uguale a una quantità certo assai piccola (h/2π, dove h è
pari a 6,6·10-34 Js), ma in ogni caso mai nulla. Il che sta a significare, in
altre parole, che sebbene sia possibile specificare con grande precisione la
posizione di un elettrone in un istante dato, ci si deve comunque rassegnare a
un’imprecisione nella misura del suo momento: sarà pertanto impossibile
stabilire con precisione la traiettoria che questo si trova a percorrere.
Allo stesso modo, la seconda relazione esplicita l’indeterminazione nelle
transizioni elettroniche all’interno di sistemi atomici. Quando un elettrone
passa da uno stato di energia E2 a uno stato energetico minore E1 in un certo
intervallo di tempo - processo che, stando alla meccanica quantistica, dà luogo
all’emissione di un fotone -, quanto più precisa è la misurazione dell’energia,
tanto meno potremo sapere sulla durata della transizione energetica.
Il significato di entrambe le relazioni di indeterminazione è ben
chiarito da Heisenberg attraverso l’ausilio di un celebre «esperimento
mentale». Il fisico tedesco immagina cioè di dover localizzare con precisione
la posizione di un elettrone illuminandolo con un microscopio dal forte potere
risolutivo, in grado di sfruttare delle brevi lunghezze d’onda. Quando un
fotone collide con l’elettrone, quest’ultimo subisce una forte variazione nel
momento p, poiché gli viene trasferito parte del momento del fotone.
Inoltre, il momento del fotone è inversamente proporzionale alla sua lunghezza
d’onda. E poiché l’esperimento mentale intende individuare con la massima
precisione possibile la posizione dell’elettrone, il momento trasferito
risulterà veramente considerevole.
Questa difficoltà evidentemente non dipende dagli strumenti di
misurazione utilizzati. In quanto mentale, l’esperimento di Heisenberg
tralascia gli aspetti puramente tecnici della questione, ipotizzando in
partenza di poter disporre di un microscopio dal potere risolutivo pressoché
infinito. Ma, come appena mostrato, maggiore è la capacità dello strumento di
osservare l’elettrone, tanto maggiore sarà il disturbo introdotto
dall’osservazione nel momento della particella.
Una prima interpretazione: la crisi della legge di causalità
Qualche mese più tardi - aprile 1927 - Heisenberg affronta una prima
interpretazione delle relazioni di indeterminazione, in un articolo apparso
sulla «Forschungen und Fortschritte» dal titolo Sui principi fondamentali
della meccanica quantistica[5]. Se
fino a inizio Novecento la fisica si era mossa nel solco della meccanica
newtoniana e dell’elettromagnetismo di Maxwell, una prima incrinatura
nell’edificio del sapere scientifico era stata la teoria einsteiniana della
relatività che, riformulando in modo drastico le nozioni di spazio e di tempo,
aveva mostrato l’insufficienza della meccanica classica nella descrizione della
realtà. Allo stesso modo, la ‘rivoluzione quantistica’ intendeva porsi come
nuovo paradigma dominante nell’indagine del comportamento delle particelle
elementari. La meccanica dei quanti si proponeva come valida alternativa alle
teorie precedenti nell’esame del mondo microscopico degli atomi. Smetteva in
questo modo di avere senso la tradizionale rappresentazione degli elettroni
attraverso i concetti, ormai logori, di posizione, velocità e quantità di moto.
La nuova meccanica - e più nello specifico il principio heisenberghiano - nega
infatti la possibilità stessa di tracciare con precisione assoluta la
traiettoria delle particelle elementari, privilegiando una descrizione del loro
moto nel termine di salti.
È proprio a questo articolo a carattere divulgativo che occorre rivolgersi
per interpretare correttamente la portata rivoluzionaria di quella che non è
eccessivo chiamare ‘rivoluzione epistemologica’. Lo stesso Heisenberg riconosce
qui che il reale contenuto di una teoria fisica va ben al di là della sua
formulazione matematica. L’importanza di un’elaborazione teorica sta
soprattutto nei nuovi concetti a cui essa dà origine[6]. E,
effettivamente, il lavoro sul principio di indeterminazione va a intaccare
nientemeno che la legge di causalità e, di conseguenza, la stessa possibilità
della previsione, fino a allora garante di scientificità delle discipline della
natura.
Seconda la nota formulazione elaborata da Laplace, infatti, una volta
conosciute la posizione e la velocità di una particella in un istante dato, e
conoscendo tutte le forze agenti su di essa, diventava per ciò stesso possibile
calcolare con precisione la posizione e la velocità della medesima particella
in ogni altro istante. In altre parole, la legge di causalità si situava alla
base di una visione oggettivistica, e per certi versi deterministica, della
realtà.
«Se conosciamo il
presente, possiamo calcolare il futuro»[7].
Eppure, aggiunge Heisenberg, «nella formulazione rigorosa della legge di
causalità non è la conclusione a essere sbagliata, bensì la premessa»[8].
In realtà, nel suo studio sulla natura, lo scienziato introduce sempre un
elemento estraneo che perturba il sistema così diligentemente costruito: la sua
stessa persona. Le relazioni di indeterminazione rendono totalmente nulla la
visione tradizionale. È impossibile ricavare una traiettoria continua del moto
dell’elettrone. Al massimo si può determinare una successione di punti. Le
leggi della meccanica quantistica non sono pertanto leggi esatte.
Cadono, al contrario, nel regno della probabilità. Nell’osservazione di
eventi atomici, è impossibile applicare una qualsivoglia forma di previsione.
Il risultato della misurazione sarà sempre compreso entro un determinato
intervallo di probabilità, tanto minore quanto maggiore sarà la precisione
degli strumenti utilizzati, ma in ogni caso mai nullo. Il fisico non può
conoscere nulla di più di ciò che è effettivamente in grado di misurare.
E tuttavia, come Heisenberg stesso afferma nell’articolo del ’27,
l’elemento statistico soggiacente alla teoria meccanica dei quanti non va mai
considerato come un elemento a priori. In altre parole, la descrizione
in termini probabilistici non è parte costitutiva della natura, ma è un
elemento introdotto dal fisico nell’atto stesso di indagare questa natura.
Quando si appresta a misurare una delle proprietà dell’oggetto di indagine, lo
scienziato è costretto a scegliere una delle diverse possibilità. L’esperimento
mentale illustrato precedentemente lo mostra assai bene: è il fisico a scegliere
di illuminare l’elettrone per individuarne la posizione. Ma quest’atto ne
disturba la velocità. La formulazione laplaciana della legge di causalità
risulta pertanto contraddetta: è impossibile predire in maniera esatta la
sequenza di posizioni assunta nello spazio dall’elettrone, poiché la sua
posizione e la velocità presenti non sono mai note con assoluta certezza.
Fisica e filosofia: una nuova causalità
Le osservazioni epistemologiche
espresse da Werner Heisenberg possono sostanzialmente essere ricondotte a tre
argomenti di fondo: il principio di identità, il rapporto di causa-effetto e
l’interazione inevitabile tra soggetto osservante e oggetto osservato, messo
chiaramente in rilievo dal principio di indeterminazione.
Il principio di identità trova
nel principio di indeterminazione una confutazione pressoché definitiva. Si è
già visto come ogni esperimento sia connotato da un forte limite oggettivo, che
il semplice progresso tecnologico non può in alcun modo annullare grazie al
perfezionamento degli strumenti di misurazione. È infatti un limite di
principio: lo scienziato è del tutto impossibilitato a stabilire l’entità - e
quindi l’identità - dell’oggetto posto sotto analisi. Non potendo essere
identificato con assoluta certezza, quest’ultimo non può neppure essere
definito nei termini di particella o di onda[9].
Con questo si assiste a una vera
e propria svolta epistemologica, che elimina la nozione di certezza sostituendole
quella di probabilità. È in virtù di ciò che Heisenberg si trova a
ripensare il concetto di causa-effetto in termini diversi rispetto al senso
riduttivamente deterministico tipico del meccanicismo newtoniano.
«Storicamente, l’uso
del concetto di causalità per la legge di causa ed effetto è relativamente
recente. Nella filosofia antica la parola causa aveva un significato assai più
generale di quanto non abbia oggi. Per esempio gli scolastici, ricollegandosi a
Aristotele, parlavano di quattro forme di causa: la causa formalis, che
oggi si designerebbe piuttosto come la struttura o il contenuto ideale di una
cosa; la causa materialis, vale a dire la materia di cui una cosa
consiste; la causa finalis, il fine per il quale la cosa è creata, ed
infine la causa efficiens. Soltanto quest’ultima corrisponde press’a
poco a quello che noi oggi intendiamo con la parola causa»[10].
La progressiva riduzione delle quattro cause aristoteliche alla
sola causa efficiente viene così a manifestarsi, nella fisica classica, come la
progressiva identificazione della causalità con un rigoroso determinismo. E
questo non smette di essere vero fino alla fine del XIX secolo, dominato dai
fermenti positivistici e dall’ingenua credenza di poter descrivere, prevedere e
in ultima analisi imbrigliare ogni aspetto della realtà.
Il centro nevralgico del
principio di indeterminazione è per l’appunto questa messa in questione della
causalità rigorosa e, soprattutto, la consapevolezza di Heisenberg di non poter
più fare riferimento alla nozione di causa intesa nel senso classico. Questo
rende Heisenberg assai più moderno di altri grandi fisici che hanno radicalmente
mutato il nostro modo di porci dinnanzi alla realtà. In primo luogo Einstein,
il quale non rinunciò mai a questo presupposto per abbracciare
l’interpretazione quantistica fornita dai protagonisti della Scuola di
Copenaghen. Ma, a differenza di Einstein, Heisenberg si rendeva perfettamente
conto di tutte le implicazioni che questo nuovo modo di vedere portava con sé.
La critica alla nozione classica di causalità doveva infatti necessariamente
accompagnarsi alla definizione di un concetto sostitutivo. E ciò, agli occhi
del grande fisico tedesco, appariva possibile unicamente instaurando un fecondo
dialogo tra la scienza fisica e l’epistemologia filosofica.
Questo inscindibile rapporto
risulta tanto più evidente dalla necessità del fisico tedesco di confrontarsi
con la filosofia di Immanuel Kant: la Critica della ragion pura, nel
tentativo di determinare le condizioni di possibilità di una scienza oggettiva,
faceva infatti interamente appoggio sulla fisica newtoniana[11].
Come è Heisenberg stesso a scrivere, «Kant afferma che ogni qualvolta
osserviamo un evento, noi presumiamo che esiste un evento precedente da cui il
primo deve seguire secondo una certa regola»[12].
Eppure, di fronte ai profondi cambiamenti verificatisi nel campo delle scienze
fisiche, «gli argomenti di Kant a favore del carattere a priori della legge di
causalità non possono più ritenersi validi»[13].
Se da queste poche righe è
certamente possibile evincere una dura messa in discussione della causalità
newtoniana, è tuttavia necessario evidenziare come la posizione heisenberghiana
sia, tutto sommato, assai meno rigida di quanto non possa apparire in un primo
momento. Il fisico tedesco, tutt’altro che sprovveduto, era infatti consapevole
del fatto che, privando la fisica del principio di causalità, venisse con ciò
stesso meno la possibilità di fare scienza. Infatti, «la legge di causalità si
risolve nel metodo stesso della ricerca scientifica: è la condizione che rende
possibile la scienza. Giacché noi in effetti applichiamo questo metodo, la
legge di causalità è a priori e non derivata dall’esperienza»[14].
È facile pensare, posti di fronte
a queste poche righe, che Heisenberg - posto di fronte alla scelta tra critica
delle acquisizioni tradizionali e possibilità di salvaguardare la ricerca
scientifica -non abbia potuto evitare di cadere in contraddizione con se
stesso. Ma l’aporia viene presto risolta qualora si consideri come ciò che il
fisico tedesco intendesse fare non era eliminare la causalità scientifica in
toto. Ciò che davvero contava era riconsiderare gli ambiti di applicabilità
di questa nozione. Sotto un punto di vista teoretico, infatti, il principio di
indeterminazione non può che condurre a un drastico ridimensionamento della
legge di causalità, che dalla certezza passa all’ambito della probabilità.
Eppure la causalità continua a conservare intatto il proprio valore sotto il
profilo pratico: in altre parole, della causalità viene evidenziato
l’irrinunciabile valore euristico. Prova di ciò è l’ambito macroscopico, nel
quale essa continua a sussistere nel suo senso classico. Ben diverso è l’ambito
del microscopico. La causalità riceve qui un brusco ridimensionamento: è
impossibile spiegare un evento atomico facendo ricorso alla singola causa.
Meglio è descriverlo nei termini, assai meno deterministici, dell’interazione
di cause. Prima fra le quali è il soggetto osservante.
«Nel mondo della nostra
esperienza quotidiana noi possiamo osservare qualunque fenomeno e farne delle
misure quantitative senza influire in modo rilevante sul fenomeno stesso [...].
Ma su scala atomica non possiamo trascurare la perturbazione prodotta
dall’introduzione dello strumento di misura»[15].
Un ruolo attivo dell’osservatore, dunque. Il cui intervento resta però
limitato, significativamente, nell’ambito del regno microscopico. Ma queste
limitazioni portano in ogni caso a sottolineare un profondo cambiamento nel
nostro modo di porci di fronte alla realtà. Heisenberg è molto chiaro in
proposito, quando afferma che «per la prima volta nel corso della storia l’uomo
ha di fronte a sé solo se stesso»[16]. In
altri termini, la natura e le sue leggi, lungi dall’essere qualcosa di
obiettivo - e, quindi, da scoprire -, sono piuttosto condizionate dal soggetto
che le osserva. Il che, forse forzando un po’ la mano, non è molto distante dal
dire che sono una nostra invenzione.
Conclusioni
Il principio di indeterminazione si configura pertanto come una profonda
ridefinizione del nostro modo di concepire il rapporto tra soggetto e oggetto.
Già Niels Bohr colse tutte queste sfaccettature quando scrisse che l’uomo «è al
contempo spettatore e attore nel grande dramma dell’esistenza»[17].
Una profonda rivoluzione scientifica e epistemologica, dunque. Una drastica
rivalutazione della soggettività nell’indagine naturale che, lungi dall’inibire
ogni pretesa scientifica, propone un nuovo - e, per certi, versi meno ingenuo -
modo di porci di fronte alla realtà.
[1]
W. Heisenberg, Über den anschaulichen Inhalt quantentheoretischen
Kinetik und Mechanik, in « Zeitschrift für Physik», XLIII, 1927, pp.
172-198. Tr. it. Sul contenuto osservabile della cinematica e della
meccanica quantoteoretiche, in W. Heisenbreg, Indeterminazione e realtà,
Guida, Napoli, 1991.
[2]
M. Cattaneo, Heisenberg, in I grandi della scienza, «Le scienze»,
novembre 2000. Ristampato in I grandi della scienza, vol. II, La
biblioteca di Repubblica, 2005, p. 613.
[3]
W. Heisenberg, Fisica e oltre. Non ho potuto controllare direttamente
questo testo, ma ho trovato la citazione in M. Cattaneo, Heisenberg,
cit., p. 614.
[4]
Pauli a Heisenberg, 19 ottobre 1926, cit. in D. Cassidy, tr. it. Un’estrema
solitudine. La vita e l’opera di Werner Heisenberg, Bollati Boringhieri,
Torino, 1996, p. 254.
[5] W. Heisenberg, Über die
Grundprinzipien der «Quantenmechanik», in «Forschungen und Fortschritte»,
III, 1927.
[6]
Ivi, p. 83.
[7] W.
Heisenberg, Sul contenuto osservabile della cinematica e della meccanica
quantoteoretiche, cit., p. 66.
[8] Ibidem.
[9]
Questa annosa questione sulla dicotomia onda - corpuscolo venne risolta
compiutamente solo dall’enunciazione del principio di complementarietà di Bohr.
«Non abbiamo a che fare con descrizioni contraddittorie dei fenomeni, bensì con
descrizioni complementari che, considerate nel loro insieme, offrono una
generalizzazione naturale del modo di descrizione classico». N. Bohr, Teoria
dell’atomo e conoscenza umana, Boringhieri, Torino, 1961, p. 327.
[10] Heisenberg,
Natura e fisica moderna, Garzanti, Milano, 1985, p. 58.
[11] Cfr. I.
Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari, 1996.
[12] W.
Heisenberg, Fisica e filosofia, Il Saggiatore, Milano, 1998, p. 108.
[13] Ivi, p.
109.
[14] Ivi, p.
108.
[15] G. Gamow, Biografia
della fisica, Mondadori, Milano, 1998, p. 252.
[16] W.
Heisenberg, Natura e fisica moderna, cit., p. 35.
[17] N. Bohr, Teoria
dell’atomo e conoscenza umana, cit., p. 375.
FONTE: http://www.filosofico.net
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